La proposta di accordo TTIP: il futuro dei rapporti UE – Stati Uniti (27.11.2014)
Commento
1- Un quadro generale sul TTIP
Il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) è l’accordo commerciale volto alla liberalizzazione degli scambi di beni e servizi, in corso di negoziazione tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti. L’idea del trattato, niente affatto recente, prendeva corpo e si sviluppava in seno all’High Level Working Group Jobs and Growth (HLWG), un gruppo di lavoro, i cui membri non sono mai stati rivelati, istituito il 28 novembre 2011 da USA ed UE per individuare opportunità di espansione del commercio e degli investimenti a livello transatlantico tenenedo in considerazione le proposte e le opinioni degli stakeholders del settore pubblico e privato sul commercio e gli investimenti tra Stati Uniti e Unione.
L’HLWG pubblicava nel febbraio 2013 la propria relazione finale in cui sollecitava l’inizio di negoziazioni al fine di raggiungere un accordo (comprehensive agreement) che si occupasse di questioni relative a commercio, investimenti, regolazione dei mercati, e, soprattutto, che contribuisse “allo sviluppo di regole globali”. Già all’interno della relazione, si individuavano tre principali aree negoziali: “accesso al mercato”, “questioni normative e ostacoli non tariffari” (Non-Tariff Barriers), “norme che affrontino le sfide e le opportunità di un commercio globale condiviso”.
Proprio nella metà del 2013, sulla base delle conclusioni dell’HLGW, il Consiglio dell’Unione Europea ha autorizzato la Commissione ad avviare le trattative, scegliendo di mantenerle segrete all’opinione pubblica.
Sebbene il TTIP non sia affatto il primo accordo di libero scambio negoziato dall’Unione Europea, le trattative in corso hanno generato una notevole apprensione nell’opinione pubblica europea, dovute senz’altro alle dimensioni economiche dell’accordo: si tratta, come d’altronde la Commissione non perde occasione di ricordare, del più grande accordo commerciale mai negoziato coinvolgendo due aree che rappresentano “quasi la metà del PIL del mondo e un terzo del commercio mondiale totale”. Eppure il profilo dimensionale sembra non essere l’unico a destare preoccupazione: proprio la particolare natura dell’accordo fa presupporre che esso avrà conseguenze difficilmente prevedibili sul piano normativo, sociale e ambientale. Infatti più che un accordo doganale, volto cioè all’eliminazione delle barriere tariffarie (i dazi), che d’altra parte già oggi sono di modesta entità, come ammette in diversi atti la Commissione stessa, la finalità dell’accordo è il raggiungimento di un elevato livello di omogeneità normativa tra l’UE e gli Stati Uniti in modo da abbattere sensibilmente i costi di transazione generati dalle differenze nella regolazione dei settori di mercato. In altre parole l’eventuale conclusione di un accordo di libero scambio non potrà che mettere in discussione l’intero assetto normativo europeo relativo ai beni di consumo, alla sicurezza del consumatore, all’ambiente, ai servizi bancari, finanziari e assicurativi, alla concorrenza, alla proprietà intellettuale, agli appalti pubblici etc. Non a caso dalle colonne di Social-Europe Journal, Dean Baker, macroeconomista e noto columnist del Guardian, ha seminato il dubbio che il vero fine del TTIP non sia quello di un tradizionale accordo di scambio relativo ai dazi, bensì quello di creare “una nuova struttura normativa che funzionerà attraverso un meccanismo di politica internazionale che probabilmente non sarebbe stato approvato attraverso la normale procedura politica di ciascun paese”. In merito si possono fare due considerazioni sullo stato attuale del negoziato: anzitutto si nota come l’atteggiamento della Commissione stia (molto) lentamente cambiando al fine di conferire al negoziato un substrato minimo di democraticità e trasparenza che legittimi l’eventuale accordo di fronte all’opinione pubblica, al Parlamento Europeo e ai parlamenti nazionali. Altro aspetto cruciale, che sarà oggetto di analisi (paragrafo 4), che in questo momento sta coinvolgendo numerosi centri di ricerca, è quello di valutare che tipo di impatto il nuovo apparato normativo generato dal TTIP potrà avere sulle rispettive economie, sui sistemi di protezione sociale, sui livelli di occupazione degli Stati membri dell’Unione Europea e giudicare se i dati forniti dalla Commissione siano condivisibili o meno.
2- Lo scenario normativo: il TTIP nel contesto della politica commerciale comune
Senza pretendere di essere esaustivi sul punto, è bene tentare di definire il quadro normativo entro il quale la Commissione sta conducendo il negoziato sul TTIP. La politica commerciale comune (PCC) si inserisce nell’azione esterna dell’Unione Europea e trova, a seguito del Trattato di Lisbona, la propria base giuridica negli articoli 206 e 207 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE). A proposito dell’azione esterna è da premettere che l’art. 21 par. 3 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), da un lato, prevede che essa debba ispirarsi ai valori dell’Unione di cui all’art. 2 TUE (… “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”) e, dall’altro, enuncia il “principio di coerenza” (“L’Unione assicura la coerenza tra i vari settori dell’azione esterna e tra questi e le altre politiche”). L’art. 207 al par. 1 conferma che “la politica commerciale comune è condotta nel quadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna dell’Unione”. Gli obiettivi specifici della PCC, enunciati all’art. 206 TFUE, mirano “allo sviluppo armonioso del commercio mondiale, alla graduale soppressione delle restrizioni agli scambi internazionali e agli investimenti esteri diretti, e alla riduzione delle barriere doganali e di altro tipo”. Come si può notare la liberalizzazione del commercio mondiale, con il Trattato di Lisbona, cessa di essere l’unico obiettivo della PCC, essendo essa soggetta ai principi su cui si basa l’azione esterna dell’Unione.
La procedura di negoziazione e conclusione di accordi con i paesi terzi è disciplinata dal combinato dell’art. 207 e dell’art. 218. L’impulso a procedere alle negoziazioni avviene attraverso una raccomandazione della Commissione al Consiglio che può autorizzarla ad avviare i negoziati. La Commissione conduce le trattative, consultandosi con un comitato speciale, “nel quadro delle direttive che il Consiglio può impartirle” (art. 207 par. 3 TFUE), e riferisce periodicamente dell’andamento delle stesse al Parlamento Europeo. Proprio il ruolo del Parlamento Europeo all’interno di questa procedura è tra i più spinosi poiché esso dovrebbe garantire la democraticità dell’intera politica commerciale comune. Risulta quindi fondamentale che il ruolo del Parlamento non si riduca all’approvazione degli accordi, peraltro prevista solo per quelli indicati nell’art. 218 TFUE, ma che esso possa interagire con il negoziatore in corso d’opera.
Vi sono da fare tre ulteriori considerazioni: anzitutto gli accordi “misti”, cioè quelli conclusi dall’UE ma che coinvolgono materie non rientranti tra le competenze esclusive dell’Unione, necessitano della ratifica degli Stati membri e, in generale, della collaborazione degli stessi per l’adempimento degli impegni internazionali assunti dalla UE. In secondo luogo l’art. 218 par. 11 TFUE stabilisce che uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono richiedere un parere alla Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo con i Trattati e, se il parere fosse negativo, l’accordo non entrerebbe in vigore salvo modifiche dello stesso o revisione dei Trattati. Detto altrimenti: un accordo internazionale non può modificare i Trattati e deve essere compatibile con essi. La terza considerazione riguarda l’efficacia e l’esecuzione degli accordi: essi vincolano le “istituzioni dell’Unione e gli Stati membri” (art. 216 par. 2 TFUE). La Corte di giustizia ha inteso tale vincolo come “interno” all’ordinamento dell’UE e non come derivante dal diritto internazionale (si veda a tale proposito la sentenza 26 ottobre 1982, causa 104/81, Kupferberg). Questo passaggio interpretativo, che si applica anche agli accordi misti, implica, da un lato, che la stessa Corte di giustizia può pronunciarsi su eventuali infrazioni degli Stati membri o esercitare la propria competenza a titolo pregiudiziale, dall’altro, che, essendo gli accordi integrati nell’ordinamento dell’Unione, essi possono avere effetto diretto per i singoli, che potranno rivolgersi al giudice per esercitare i diritti derivanti da norme chiare, incondizionate e precise dell’accordo internazionale. Sotto quest’ultimo profilo v’è da considerare che la posizione della Corte sugli accordi commerciali è sensibilmente diversa: questi ultimi infatti contengono disposizioni, salvo casi circostanziati, troppo flessibili per avere un effetto diretto e generare diritti e obblighi in capo ai singoli (si veda sul punto sentenza 23 novembre 1999, causa 149/96, Portogallo c. Consiglio).
Seguendo il combinato disposto degli articoli 207 e 218 del TFUE, la Commissione il 12 marzo 2013 formulava la propria raccomandazione al fine di ottenere una decisione del Consiglio che autorizzasse l’avvio delle trattative accompagnando ad essa un corposo documento (Impact Assessment Report on the future of EU-US trade relations di seguito IA) atto a valutare l’impatto di un eventuale trattato di libero scambio tra UE e USA. Si è appreso solo il 9 ottobre 2014, attraverso la declassificazione del mandato, che il Consiglio ha autorizzato il 17 giugno 2013 la Commissione a dare avvio ai negoziati per la conclusione del TTIP. Le trattative sono ancora in corso e per ora il ruolo del Parlamento Europeo è stato piuttosto marginale. Anche il ruolo degli Stati membri è stato poco incisivo nonostante l’ex Commissario al commercio De Gucht abbia affermato che “molto probabilmente” la natura del TTIP sarà quella di un “accordo misto” e per questo necessiti della collaborazione e della ratifica degli Stati membri. Non è un caso che ultimamente, all’interno dei parlamenti nazionali, vi sia un certo fermento al fine di ottenere un coinvolgimento, almeno attraverso la possibilità di accedere agli atti del negoziato, nella procedura di conclusione dell’accordo. Da quanto sopra delineato, se si arrivasse alla conclusione del TTIP, esso diverrebbe parte integrante del diritto dell’Unione, con la conseguenza che, se compatibile ai Trattati, il diritto derivato dell’UE sarebbe subordinato all’accordo internazionale: da un lato il diritto derivato andrebbe interpretato conformemente alle disposizioni dell’accordo e dall’altro gli atti posti in essere in violazione di esso sarebbero invalidi.
3- Il contenuto del mandato a negoziare e la proposta di iniziativa popolare europea
La declassificazione del mandato sul TTIP, a cui si è accennato, è giunta a seguito dell’ondata di polemiche sulla segretezza delle negoziazioni sul trattato. In particolare, la decisione della Commissione di non registrare la proposta di iniziativa popolare europea con la quale si era richiesto alla Commissione stessa di sollecitare il Consiglio al fine di revocare il mandato a negoziare il trattato, sulla base degli articoli 11 par. 4 del TUE e 24 par. 1 del TFUE e sul Regolamento n. 211/2011 del Parlamento Europeo e del Consiglio, ha rinfocolato il sospetto che la Commissione non voglia realmente coinvolgere i cittadini nelle decisioni di politica commerciale europea. V’è da ammettere comunque che l’iniziativa popolare aveva una base giuridica alquanto vacillante visto che lo stesso TUE prevede che i “cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri” (art. 11 par. 4) possano invitare la Commissione ad adottare “un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati”. La richiesta di iniziativa popolare poteva essere registrata solo considerando la revoca di un mandato alla stregua di un atto giuridico dell’Unione. La Commissione ha ritenuto che la revoca del mandato non rientri nel diritto di proporre l’adozione di “un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati”, che il mandato non possa considerarsi un atto giuridico ma un mero atto interistituzionale e che, di conseguenza, la proposta esuli dalla competenza della Commissione di presentare una proposta di atto giuridico (art. 4 co. 2 lett. b del Regolamento n. 211/2011).
Passando all’analisi delle direttive del mandato, è da premettere che la portata molto generale di esse lascia una discrezionalità abbastanza ampia alla Commissione. Ad ogni modo, gli aspetti cruciali del mandato, che d’altra parte stanno oggi caratterizzando le trattative tra Unione Europea e Stati Uniti, paiono essere quelli qui di seguito indicati.
1) Il tentativo di contemperare l’apertura di nuove opportunità di commercio e investimento con la tutela del lavoro, dell’ambiente, della salute, della sicurezza e della diversità culturale. A tal fine le direttive riguardanti l’accesso al mercato, nel tentativo di eliminazione totale delle barriere tariffarie, si preoccupano di specificare che si terrà conto degli interessi dei produttori dell’Unione (par. 11), che saranno previste per entrambe le parti misure antidumping e compensative (par. 13), che sarà inserita una clausola di salvaguardia bilaterale (par. 14).
Per ciò che concerne gli ostacoli non tariffari (NTB, cioè ostacoli diversi dalle tariffe come restrizioni quantitative, licenze, barriere di standard etc.) e il raggiungimento della compatibilità normativa si stabilisce che l’accordo “non deve pregiudicare il diritto di legiferare conformemente al livello di tutela della salute, della sicurezza, dei consumatori, del lavoro, dell’ambiente e della diversità culturale”. Considerato che gli ostacoli tariffari sono già allo stato attuale poco rilevanti nel commercio tra UE e USA, il vero snodo negoziale riguarda proprio l’abbattimento della eterogeneità normativa e delle barriere non tariffarie. Tuttavia non si è ancora ben compreso come tale convergenza normativa delle legislazioni non alteri i livelli di tutela dei soggetti “protetti” (consumatori, risparmiatori, investitori etc.) specialmente in alcuni settori come l’agroalimentare, i servizi finanziari, etc.;
2) La tutela e la liberalizzazione degli investimenti. Il mandato stabilisce che il trattato dovrà assicurare “il più alto grado possibile di tutela giuridica e certezza del diritto per gli investitori europei negli Stati Uniti”, “dovrà prevedere la promozione degli standard di tutela europei in modo da aumentare l’attrattiva dell’Europa quale luogo di investimenti esteri”, dovrà assicurare “completa tutela e sicurezza per gli investitori e per gli investimenti”. A tal proposito si profila la possibilità di istituire un meccanismo di risoluzione delle controversie del tipo Investor-state dispute settlement (ISDS): l’investitore straniero, secondo tale modello, può rivolgersi ad un arbitro se considera che lo Stato nel quale ha investito stia violando gli obblighi imposti dall’accordo commerciale. Questo tipo di previsione, molto in voga nei recenti accordi commerciali, è uno degli aspetti maggiormente controversi e discussi del mandato negoziale e delle stesse negoziazioni tra UE e USA, in quanto in grado di restringere notevolmente la libertà nelle scelte di politica economica di uno Stato;
3) La previsione di interventi normativi concernenti materie e settori particolari (par. 28 e ss.). Si tratta delle c.d. “norme”, espressione volutamente generica per indicare determinate questioni normative considerate evidentemente critiche dal mandante e che quindi necessitano di particolare attenzione. Tra le altre troviamo: i diritti di proprietà intellettuale e le indicazioni geografiche, l’antitrust, le fusioni e gli aiuti di Stato, l’energia e le materie prime, i pagamenti correnti e i movimenti di capitale, le disposizioni relative alle piccole e medie imprese.
Sulla base di quanto anticipato, il mandato è molto generico e dalle relazioni sui cicli di negoziazione, pubblicate dalle parti, non emerge con chiarezza quale sia lo stato di avanzamento della trattativa. Benché nei mesi scorsi siano circolati stralci e bozze relative al TTIP che hanno lasciato presagire una imminente conclusione dell’accordo tra le parti, ultimamente nella stampa europea sembra prevalere una certa cautela, se non addirittura un certo pessimismo, sull’andamento delle negoziazioni, in specie sugli aspetti citati relativi all’ISDS e alla regolazione di alcuni settori di mercato. Anche la circostanza dell’attesa per l’insediamento della nuova Commissione Juncker ha giocato un ruolo nel dare un freno alle trattative negli ultimi mesi, sebbene il nuovo Commissario al commercio Cecilia Malmström abbia dichiarato la volontà di portare avanti le negoziazioni del TTIP e di voler “migliorare la trasparenza ma mantenere la riservatezza necessaria in questo tipo di trattative”.
4- L’impatto sociale dell’accordo
Come si è brevemente accennato la valutazione dell’impatto che il TTIP avrà sull’economia, sull’occupazione, sul sistema di protezione sociale e sui livelli di tutela dell’ambiente e del lavoro in Europa si sta lentamente affermando come il fulcro del dibattito intorno all’accordo oltre che aver assunto rilevanza politica dal momento in cui il Parlamento Europeo ha richiesto al Centre for European Policy Studies (CEPS) un giudizio sull’Impact Assessment (IA) della Commissione, con riguardo specificatamente all’affidabilità del modello economico utilizzato per valutare gli effetti sociali ed economici del Trattato.
Riprendendo brevemente la valutazione della Commissione, su cui hanno avuto una grande influenza gli studi condotti dal Centre for Economic Policy Research (CEPR 2013) e dall’Ecorys (2009), la conclusione di un accordo di libero scambio potrebbe condurre, nell’ipotesi più ampia di liberalizzazione e abbattimento delle NTB (ambitious scenario), ad un aumento del PIL pari allo 0,48% per l’UE e ad uno 0,39% per gli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’impatto sociale e occupazionale, l’approccio della Commissione è di tipo settoriale: l’assunto è che “i lavoratori si muoveranno verso i settori che beneficeranno dell’aumento della domanda”. L’aumento del commercio, secondo la Commissione, aprirà nuove opportunità di impresa, conducendo ad una diminuzione dell’occupazione in alcuni settori e ad un più significativo aumento dell’occupazione in altri, oltre che ad aumenti del salario di equilibrio sia per i lavoratori “skilled” che per quelli “unskilled”.
Dando seguito alla richiesta del Parlamento, il 13 ottobre 2014 il CEPS ha pubblicato le sue valutazioni sull’IA della Commissione promuovendolo con non poche riserve. Infatti il modello seguito nell’IA (Computable General Equilibrium, CGE) viene considerato il migliore esistente per la stima “dell’impatto di lungo termine” degli accordi di libero scambio nonostante i suoi numerosi “svantaggi”. In primo luogo si rileva come la natura del TTIP sia quella di “un patto ad ampio raggio normativo” volto all’abbattimento delle barriere non tariffarie (NTB) e della eterogeneità normativa, i cui vantaggi sono difficilmente quantificabili dal punto di vista economico. Il CEPS inoltre mette in luce le criticità del modello della Commissione nel valutare l’impatto ambientale e sociale. La bocciatura più consistente riguarda proprio l’inadeguatezza del modello CGE a considerare gli effetti sull’occupazione, poiché esso assume “il perfetto equilibrio tra domanda e offerta di lavoro nel lungo periodo”. In sostanza, lo studio della Commissione non è in grado di fare chiarezza su come l’aumento di produzione, generato dalla conclusione dell’accordo di libero scambio, sarà in grado di produrre un aumento dell’occupazione.
A dire il vero lo studio del CEPS non è il solo a sollevare perplessità sull’impatto sociale del TTIP. Già nel maggio 2014 l’Austrian Foundation for Development Research (OFSE) poneva seri dubbi sulla attendibilità dei benefici ipotizzati dall’IA della Commissione. Oltre a tensioni sulla bilancia dei pagamenti dell’UE e ad un calo delle entrate dovuto all’abbattimento delle barriere tariffarie, lo studio dell’OFSE mette in luce come il costo sociale dell’accordo non sia stato affatto considerato dallo studio della Commissione. L’approccio dell’IA assume infatti che i lavoratori si muoveranno naturalmente verso i settori in crescita senza considerare le difficoltà di riqualificazione per i lavoratori “unskilled” e la possibilità che la fascia di lavoratori più anziana, perso il lavoro nel proprio settore, non riesca a riposizionarsi nel nuovo scenario europeo, gravando così sulla spesa sociale degli Stati membri. Questi costi di aggiustamento potrebbero essere ancora più acuti data la bassa mobilità del lavoro che caratterizza l’UE e il periodo di crisi economica che essa sta attraversando.
Per citare solo un altro esempio il Global Development and Enviroment Institute (GDEI) nell’ottobre 2014 ha pubblicato uno studio fortemente critico sugli effetti macroeconomici del TTIP proponendo, a differenza dello studio del CEPS, un approccio alternativo (Global Policy Model, GPM) utilizzato dalle Nazioni Unite per l’analisi degli scenari economici internazionali. Anzitutto si nota che l’aumento della dipendenza commerciale dell’Unione Europea nei confronti degli Stati Uniti, a seguito dell’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio, potrebbe “rendere l’UE vulnerabile nei confronti delle condizioni macroeconomiche del Nord America”. In altre parole l’assenza a livello comunitario di un’autorità fiscale centrale, in grado di effettuare manovre espansive nei periodi di diminuzione delle importazioni dagli Stati Uniti, potrebbe condurre l’UE all’instabilità economica. La simulazione degli effetti economici del TTIP condotta dal GDEI, come anticipato basata sul modello GPM, conduce a risultati affatto diversi rispetto a quelli stimati dalla Commissione: pur ipotizzando uno scenario di aumento del commercio tra UE e USA, il risultato in termini di PIL potrebbe essere addirittura negativo per l’UE poiché la “domanda interna di beni di basso valore aggiunto – nei quali l’UE è poco competitiva – spiazzerà quelli ad alto valore aggiunto”. Inoltre il modello proposto dal GDEI sarebbe in grado di quantificare gli effetti di una caduta del PIL europeo sull’occupazione, ipotizzando che la perdita di posti di lavoro sarà di circa 600.000 unità entro il 2025, stimando che l’effetto sui salari sarà negativo e che vi sarà un trasferimento ulteriore di reddito dal lavoro al capitale con un conseguente aumento delle disuguaglianze.
5. Una parziale indicazione conclusiva
Il 18 novembre 2014, nel suo primo discorso al Parlamento Europeo da Commissario al commercio, Cecilia Malmström ha riaffermato l’idea che il TTIP, generando nuove opportunità di commercio e maggiore competitività, creerà nuovi posti di lavoro e un aumento dei salari. Tutto questo attraverso l’abbattimento dei costi di transazione e la cooperazione normativa. Il Commissario ha anche posto l’accento sulla trasparenza e soprattutto ha sottolineato che “l’impulso del Parlamento Europeo e degli Stati membri è essenziale”. E’ possibile che il rallentare dei negoziati abbia convinto la Commissione della necessità di un coinvolgimento, seppure minimo, del Parlamento Europeo e dei parlamenti nazionali che, seppure non previsto come obbligatorio ai sensi dell’art. 218 TFUE, possa facilitare l’accettazione dell’accordo transatlantico da parte dell’opinione pubblica e degli Stati membri. A questo proposito è prevedibile che la maggiore trasparenza, da sola, non sarà in grado di sopire le polemiche sul TTIP nei prossimi mesi senza che a questo non si accompagni la partecipazione reale ed aperta del Parlamento Europeo, quanto meno su alcuni punti fondamentali quali l’ISDS, gli appalti pubblici, la proprietà intellettuale, l’impatto sociale etc… E’ auspicabile inoltre che gli Stati membri, se sollecitati dai parlamenti nazionali, utilizzino tutti gli strumenti giuridici, ad esempio quello previsto dal par. 11 dell’art. 218 TFUE, per vagliare la compatibilità del TTIP con i Trattati, i suoi effetti sugli standard di tutela normativi degli Stati membri e il suo impatto sociale complessivo.
Federico Di Dario