Le raccomandazioni del Parlamento europeo sul Trattato transatlantico: molto rumore per nulla? (14.07.2015)

La risoluzione sul Trattato transatlantico tra UE e Stati Uniti (TTIP), predisposta dalla Commissione sul commercio internazionale (INTA Committee) guidata dal deputato socialista Bernd Lange, è stata approvata, l’8 luglio 2015, dal Parlamento europeo a stragrande maggioranza dopo il rinvio del voto avvenuto lo scorso giugno, a seguito di un convulso scontro all’interno dei partiti che sostengono la Commissione Juncker.

V’è da premettere che i Trattati non prevedono espressamente che il PE possa adottare delle raccomandazioni in corso di negoziazione ma tale potere deriva dalla prassi. Il ruolo di garanzia di democraticità svolto dall’assemblea, infatti, secondo la procedura prevista dal combinato degli articoli 207 e 218, verrebbe assicurato dai doveri di informazione in capo alla Commissione a favore del PE e dal potere di approvazione del testo finale da parte del PE stesso.
La Commissione parlamentare aveva elaborato senza troppi intoppi il corposo documento sul TTIP che è stato presentato tempestivamente per l’approvazione del Parlamento europeo (PE). Tuttavia, il consistente numero di emendamenti proposti in assemblea aveva indotto il Presidente del PE a rimandare la discussione e l’approvazione del testo. Diverse agenzie di stampa hanno segnalato che tale rinvio è stato sostanzialmente dovuto ad una spaccatura in seno al gruppo dei Socialisti e Democratici. In particolare, le perplessità dei deputati hanno riguardato la (ormai famosa) clausola sull’Investor State Dispute Settlement (ISDS), attraverso cui un investitore straniero che reclami una violazione degli standard di trattamento previsti dal Trattato da parte dello Stato ospitante può condurre lo stesso dinanzi ad un tribunale arbitrale, anziché davanti agli organi giurisdizionali del relativo Stato ospitante.
L’INTA aveva approvato molto agevolmente la sua relazione da presentare all’assemblea plenaria nonostante il testo presentato per il voto finale al PE sia stato criticato da più parti per essere decisamente timido su alcune questioni che preoccupano l’opinione pubblica. In effetti, a scorrere anche velocemente il testo predisposto dall’INTA emerge una sostanziale comunanza di linguaggio e valori rispetto alle posizioni negoziali della Commissione. La priorità rimane quella del raggiungimento di un accordo ambizioso che comporti un definitiva eliminazione dei dazi doganali ed un effettivo abbattimento delle barriere non tariffari senza compromettere i livelli di tutela del lavoro, dell’ambiente, della salute e della sicurezza. La relazione presentata esorta inoltre la Commissione affinché si escludano i servizi di interesse generale dall’ambito di applicazione del TTIP, si preveda una protezione giuridica “forte” delle indicazioni geografiche dell’Unione, si includa nell’accordo un capitolo sullo sviluppo sostenibile che assicuri l’attuazione delle convenzioni basilari dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro e dei principali accordi in materia ambientale. La relazione dell’INTA prevedeva inoltre che il trattato includesse un capitolo sull’energia che abolisse «tutte le vigenti restrizioni o gli impedimenti alle esportazioni di carburanti, compreso il GNL e il petrolio greggio, tra i due partner commerciali».
Il testo approvato dal PE non modifica nella sostanza quanto proposto dalla Commissione sul commercio internazionale nel rapporto Lange. Nella risoluzione si afferma infatti che il TTIP ha una «importanza strategica per le relazioni tra UE e US» soprattutto per stabilire principi e valori condivisi che, oltre a regolare il mercato transatlantico, possano «plasmare e regolare il commercio internazionale». Che il TTIP vada oltre gli aspetti commerciali, lo si legge d’altronde nell’opinione della Commissione Affari esteri allegata al rapporto Lange dove si sottolinea «l’estrema importanza geopolitica dell’accordo in un momento in cui gli Stati Uniti stanno imperniando le loro relazioni con l’Asia e concludendo il parternariato trans-pacifico». Il Parlamento europeo ha tenuto a precisare che l’approvazione finale del TTIP può essere messa in pericolo qualora non si abbandoni completamente «l’attività di sorveglianza di massa» nei confronti dei cittadini europei, riferendosi agli scandali relativi al programma PRISM condotto dalla statunitense National Security Agency.
Come si notava, il ritardo nell’approvazione del testo è da imputare alla clausola ISDS. Nonostante l’esultanza di alcuni deputati, che hanno riferito di una presunta “morte” del meccanismo di risoluzione Stato-investitore, il testo della risoluzione prevede l’inclusione di un meccanismo “rivisitato”. Il PE ha stabilito che il meccanismo di risoluzione delle controversie da includere nel TTIP sia maggiormente trasparente e le udienze dello stesso siano pubbliche. Inoltre, esso dovrà assicurare la coerenza delle sue decisioni, la appellabilità delle stesse e che «gli interessi privati non danneggino gli obiettivi di politica pubblica». È evidente che occorre attendere gli sviluppi sulla costituzione di tale nuovo organo arbitrale, tuttavia, vale la pena di sottolineare che la discussione sulla costituzione di un organo di appello e sulla coerenza delle decisioni degli arbitri internazionali sugli investimenti sta avendo luogo da anni e non ha prodotto per ora alcun concreto risultato. Il problema della coerenza è difficile da risolvere poiché gli standard di protezione previsti negli accordi di protezione degli investimenti, come la clausola che obbliga lo Stato al fair and equitable treatment dell’investitore straniero, lasciano agli arbitri infinite possibilità interpretative. In tal modo, un provvedimento statale può ben essere considerato illegittimo da un collegio arbitrale mentre un provvedimento simile di altro Stato potrebbe essere interpretato quale rientrante nel right to regulate dello stesso. La questione quindi su cui avrebbe dovuto spendere qualche parola in più il PE è proprio quella degli standard di trattamento. Per quanto si possa rendere il procedimento arbitrale più trasparente e democratico, è il diritto sostanziale degli investimenti internazionali ad essere eccessivamente vago e a dare talora la possibilità all’investitore di utilizzare tale vaghezza a suo favore. Bisogna inoltre tenere presente che, secondo i dati relativi al 2014 elaborati dall’UNCTAD, solo un quarto delle dispute totali sono andate a favore dell’investitore mentre il 37% a favore dello Stato ospitante, le altre si sono interrotte o sono state oggetto di transazione. Non si vuole certo negare che l’ISDS possa costituire una minaccia per il right to regulate degli Stati e che tale minaccia possa ingigantirsi a causa del TTIP. Tuttavia, viene il sospetto che l’attenzione del PE verso l’ISDS sia stata più che altro una risposta dovuta ai timori dell’opinione pubblica su un argomento ormai considerato come l’emblema di un accordo fatto su misura per le multinazionali. Altri argomenti rispetto alla trasparenza del procedimento arbitrale potevano quantomeno essere oggetto di maggiore attenzione.
Per fare un esempio, in linea con quanto sostiene la Commissaria al commercio Malmström e con quella che è la posizione del Presidente della Commissione Juncker, la risoluzione del PE afferma che «le esportazioni attraverso il commercio e la crescita attraverso gli investimenti sono fattori cruciali di crescita economica e di occupazione che non richiedono spesa governativa». L’affermazione, apparentemente pleonastica, cela in realtà la resa del PE e dei partiti di maggioranza ad un modello di crescita basato sulle esportazioni e l’afflusso di investimenti diretti esteri, riscontrata la palese incapacità dell’Unione di fare politiche interne per la crescita. A tale proposito, benché si potrebbero riportare le numerosissime critiche che il modello basato sulle esportazioni ha ricevuto durante la crisi dell’Eurozona, basta ricordare le parole che Keynes scrisse su di esso nella sua Teoria Generale: «Se le nazioni imparassero a provvedere da se stesse alla piena
occupazione, tramite la politica interna, (…) non ci sarebbe più motivo per cui un paese ha bisogno di forzare la sua merce in un altro, o di respingere le offerte del suo vicino (…) al fine di ottenere una bilancia commerciale in proprio favore. Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è, vale a dire un disperato espediente per mantenere l’occupazione in casa forzando le vendite sui mercati esteri e limitando gli acquisti, che, in caso di successo, si limita a spostare il problema della disoccupazione al paese vicino che ha la peggio nella lotta».

Federico Di Dario